Femminili professionali e minchiarimento: quello che le donne non capiscono
“L'uso di un termine anziché di un altro comporta una modificazione del pensiero e nell'atteggiamento di chi lo pronuncia e quindi di chi lo ascolta”
Alma Sabatini– Linguista e attivista italiana
La frase citata sopra è una piccola parte dell’estratto Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, contenuto nel lavoro dal titolo – Il sessismo nella lingua italiana, curato da Alma Sabatini per la Presidenza del Consiglio dei Ministri e la Commissione Nazionale delle Pari Opportunità tra uomo e donna nel lontano 1986-87.
Ho iniziato l’articolo citando Alma Sabatini per dare credibilità a ciò che sto per dirvi ed anche per confessarvi che pur io, come molte e molti di noi, credevo che la questione dei femminili professionali fosse più recente. Questa inesattezza ha portato molti parlanti, contrari all’uso di sostantivi come ministra ad esempio, ad accusare della loro comparsa e circolazione la sinistra italiana e in particolare Laura Boldrini, da costoro titolata “boldrina”. Come spesso accade è diventata bersaglio, a causa della sua richiesta di essere chiamata “signora presidente”, della rabbia linguistica dei difensori del sacro italiano. Dimostrazione di come nessuno sapesse che l’inizio della questione non è certo partito da lei, lei che insieme alla sinistra, alle altre donne frustrate del paese e all’Accademia della Crusca, vengono accusati di tale sacrilegio lessicale.
Questo accade per ragione precise: sono poche, pochissime, le persone che si informano bene prima di condividere un contenuto o una notizia. Le conseguenze di tale mancanza di responsabilità possono essere enunciati del tipo: “avvocata non è italiano”, “allora mi faccio chiamare pediatro” , “prima l’italiano”, insomma la tradizione, qualunque cosa voglia dire, non si tocca. Poco importa se la lingua deve raccontare e descrivere le persone, chi se ne frega se prima una donna non poteva fare il magistrato a causa del ciclo mestruale che la rendeva poco lucida. L’italiano non è qualcosa da difendere, ma un mezzo per creare la realtà sociale in cui vogliamo vivere.
I contrari all’uso dei femminili spesso confondono la propria opinione (l’assoluto “io la penso così”) o un’esperienza personale o di terzi, (mia cugina vuole essere chiamata avvocato e non avvocata), in una teoria confutata e che vale per tutti, come se tutti avessimo le stesse esigenze o gli stessi diritti. Sì perché abbiamo scarsa percezione di vivere in una società ampia, in cui certe questioni non sono personali, riguardano, invece, una cospicua moltitudine di individui.
Citando, in parte, il saggio della sociolinguista Vera Gheno – Femminili singolari, il femminismo è nelle parole, ho avuto modo di comprendere con chiarezza molti punti sulla questione:
- Non si tratta di “cambiare la lingua”, ma di applicare le normali regole che ne gestiscono il funzionamento;
- La lingua italiana prevede la formazione di tali femminili singolari; dunque nessuna forzatura o storpiatura;
- Alcuni voti contrari si aggrappano a ragioni tipo estetico, come se fossimo poeti e non parlanti, definendo tali femminili: cacofonici, orripilanti, inutili, e insieme ad un coro di gne gne gne,il gettonato “usarli non cambia nulla alle donne”;
- Deputata non è più di sinistra né di destra di imputata. Infatti l’istanza dei femminili è più vecchia di destre e sinistre. Ma, questo lo aggiungo io, ci piace tanto dare la colpa a qualcuno, schieraci nettamente da un lato o da un altro, poiché stare tra le sfumature del grigio ci obbligherebbe ad approfondire, a riflettere e ad uscire dal nostro centrismo, e a noi proprio non va.
Dunque la “povera lingua italiana” che questi finti intellettuali di sinistra vogliono rovinare, non ha nessun problema nella formazione dei sostantivi in questione. Di linguistico c’è solo il pregiudizio, un istinto a mantenere le cose come sono, perché ogni cambiamento richiede uno sforzo e come già detto, a noi proprio non va.
Le donne che non capiscono, ma per fortuna c’è il minchiarimento
Mansplaining (Mansplaining) s. m. inv. L’atteggiamento paternalistico con il quale certi uomini pretendono di rappresentare e spiegare alle donne il loro stesso punto di vista e ciò che è lecito o non è lecito che le donne facciano. ◆ Vera Gheno, sociolinguista e specialista in linguaggi giovanili nota una certa assertività in entrambi i casi […] «Un altro tratto tipico del modo di esprimersi degli uomini – osserva – è quello che in America chiamano Mansplaining: quando ad ogni parola di donna un uomo interviene a spiegare come un patriarca, perché lui la sa più lunga». Gheno è la responsabile dell’account Twitter dell’Accademia della Crusca e, con ironia, ci segnala il possibile corrispettivo termine italiano: Minchiarimento.
Treccani
Minchiarimento o mansplaning sono parole che spiegano un fenomeno sociale, quello in cui un uomo ti invita ad esempio a stare zitta, buona, a non fare la pazza perché adesso lui ti spiegherà tutto. Quello in cui un gruppo di uomini decide cosa è meglio per te, quali sono i tuoi diritti e come devi condurre la tua vita. Insomma quel fastidioso e ormai non più tollerabile atteggiamento che sottintende la superiorità del maschio.
Tra le frasi top ce n’è una che trovo paurosamente gremita di sottintesi, quando cioè un uomo giudica il tuo lavoro, magari pubblicamente sui social e invece di appellarti con il tuo titolo di studio o professionale inizia con “signora” non usando mai il tuo cognome e chiamandoti per nome, per poi continuare con l’adagio paternalistico “vede lei non capisce”.
Andando in fondo alla questione in molti uomini c’è l’assoluta convinzione che le donne non capiscano le cose anche quelle che hanno studiato o che le riguardano in quanto donne, come invece loro fanno molto meglio. Siamo difettose, bisognose di minchiarimenti continui. Se non riusciamo a eliminare la distorsione di questo pensiero, il qual pensiero ricordo si forma con le parole che scegliamo di usare, difficilmente riusciremo a uscirne vive.
Femminili professionali: sindaca suona male o è meno potente di sindaco?
Come tutte le storie umane anche quella dell’uso dei nuovi femminili professionali, è solo una questione di potere e di controllo. Di potere perché alcune professioni hanno un prestigio diverso rispetto a cameriera, infermiera, impiegata, maestra e se permettiamo alle donne di trovare anche la loro declinazione in ruoli importanti (pensate a ministra, avvocata, sindaca) si rischia di perdere il controllo del maschio sulla società, di cambiare ciò che ci ostiniamo a mantenere immutabile. Ma, ed è questo ciò che conta, la lingua segue i cambiamenti sociali, e per quanto non ci piace accettarlo, le donne “capitana” esistono e la loro esistenza in ruoli che prima erano appannaggio maschile, va legittimata anche attraverso l’uso delle parole.
Sono assolutamente convinta che ciò che si evita di chiamare con il proprio nome ha come unica motivazione quella di negarne o limitarne l’esistenza.
Credo che il rifiuto del loro uso da parte di alcune donne che ricoprono cariche importanti, penso a Giorgia Meloni (ahimè), sia dovuto alla percezione che “la Presidente del Consiglio” sia meno prestigioso, meno degno, forte, potente e autorevole di essere chiamati “il Presidente del Consiglio”. Perché solo ciò che è maschio è tutte quelle cose. C’è il timore di svuotare quel ruolo e di renderlo debole rispetto al suo corrispettivo maschile.
Questa considerazione mi ha fatto più male dei vari “cacofonici” e “ingegnera non si può sentire”, perché mi ricorda quanto profondo è in noi, come società, il maledetto patriarcato.
Per tutti quelli che “però suona strano sindaca”, ripetere due volte al giorno prima e dopo i pasti, dopo trenta giorni la vostra percezione cambierà.
Poteri forti, Accademia della Crusca e petalose conclusioni
La Crusca, nella pratica, non ha un ruolo rigidamente prescrittivo; come tutti gli altri enti interessanti a questioni di lingua descrive la realtà linguistica piuttosto che prescriverla. Non esiste alcuna autorità superiore in Italia che abbia il potere di imporre alcunché a livello linguistico. Nè l’Accademia, né le grammatiche, né i vocabolari hanno il ruolo di accettare, avvallare o sdoganare, come molti amano dire, i cambiamenti e le regole linguistiche, come invece succede in altri paesi.
Femminili singolari – Vera Gheno
Dunque nessuna cospirazione da parte dei poteri forti, nessuno che decide per noi in campo lessicale. In verità siamo o potremmo essere liberi individui e usare tutte le possibilità che il bell’italiano ci offre invece di sbattere i piedi e rimpiangere il passato (conosciuto anche come “ai miei tempi l’italiano era migliore” e “non ci sono più le mezze stagioni”).
Chi sceglie di non usare tali sostantivi sostiene di farlo per ragioni linguistiche e continua a menzionarle ostinatamente anche se qualcuno più competente (certe linguiste e linguisti) ci rassicurano al riguardo: la lingua italiana non si oppone alla loro esistenza, la prevede nelle sue regole.
Dare “parola” a prestigiose professioni femminili non significa cambiare la lingua, ma usarla in ampiezza per fare posto a tuttə.