Perché non esiste una festa degli uomini? Visioni e distorsioni dell’otto marzo
Dicono che ogni domanda merita una risposta, siete d’accodo?
Otto marzo 2024, siamo ancora tutt* qui a dibattere, connessi dalla rete, mixati da notizie discordanti: donne che vengono uccise dagli uomini e bambini che dicono che a casa comanda la mamma. Di quale verità si deve parlare in questo giorno che come ogni anno porta una ridondante ventata di polemiche, di “esagerazioni” al femminile, di spogliarelli, pizzate e cortei transfemministi. Chi sono le italiane e gli italiani nella giornata internazionale dei diritti delle donne?
Spesso mi son sentita chiedere da un uomo perché non esita parimenti una festa degli uomini; la domanda fatta con tono ironico nasconde il profondo desiderio di essere compreso nella sua grande difficoltà: aver sposato una donna. Io che ancora riesco a distinguere il generale (la società) dal particolare (l’esperienza personale di matrimonio del singolo individuo) cerco di essere paziente anche di fronte all’ovvietà sovrumana di tale risposta. Telegraficamente, come una Siri degli anni ’90, rispondo: “Perché per voi la festa non è mai finita”. Però mi rendo conto che per molti quello che conoscono è quello che accade, è l’unica realtà possibile, non contemplano neanche la possibilità che ciò che non conoscono esiste e accade ad altre persone.
Ciò significa che se di base io credo che le “donne oggi sono a posto così”, faccio queste domande con uno stile retorico che ormai personalmente mi ha triturata. Comunque rispondo per le prossime stagioni del 8 marzo: non esiste una “festa” dei diritti internazionali degli uomini perché i loro diritti nessuno altro li ha mai messi in pericolo. Essi sono saldi, sono le fondamenta delle nostra società, sono la lente con la quale si guarda a tutto ciò che non fa parte della classe dominante.
Una menzione speciale (vista la mia ossessione per i linguaggio) va fatta per chi, a differenza di chi vede gli individui in evoluzione e non in castrazione, non sopporta che si diano i giusti nomi alle cose.
Questa attenzione maniacale alle parole da usare a ciò che non si può più dire, disturba… in effetti chi siamo noi per farlo se non l’unica specie che ha creato un modo di comunicare unico, il codice del linguaggio? E come ci permettiamo a dargli così importanza da addirittura chiamare l’otto marzo non più festa, ma giornata internazionale per i diritti delle donne.
Ragioni – sparse- della sofferenza alla denominazione di cui sopra:
- Troppo lunga la frase;
- Non cambia nulla come la si chiama;
- Le donne hanno problemi più importanti;
- Benaltrismo a profusione, più della mimosa;
- allora perché non si pagano loro la cena e altre cose;
La lista è lunga, lucida e sferzante, segue l’idea che questi esseri umani donne sbraitano ormoni e diritti usando la voce, quando potrebbero semplicemente stare tranquille e accettare la loro naturale propensione all’accondiscendenza. Soprassedere al fatto che vengano giudicate anche rispetto all’otto marzo. Vediamo come.
Chi sono le donne che esagerano tutto, vediamole nel dettaglio
Da quello che mi è parso di capire dalla società dei social, ci sono dei punti fermi sulla percezione delle donne, uno di questi è che queste “creature” per natura tendono ad esagerare tutto.
Potremmo considerare questo fatto come una macro categoria che al suo interno ha per lo più diversi modi di applicare questo snervante difetto di essere “too much”, pesanti, maestrine, emotive, scassa palline, isteriche. Potremmo, partendo da questa macro categoria, suddividerle per estrazione sociale e culturale, potremmo, ma non sarebbe realistico, perché le donne sono ugualmente pesanti indistintamente. Dunque mi sembra di aver capito che uno dei modi in cui veniamo classificate riguarda proprio come interpretiamo e trascorriamo l’otto marzo.
Categoria A: donne che vanno a mangiare la pizza, bere, ridere sguaiatamente, fare un trenino e se sono in città si beccano pure uno spogliarellista. Questo tipo di donne è conosciuto anche con l’appellativo di “hanno aperto le gabbie”. Con tale frase si vuole caldamente sottolineare che queste ultime non escono mai di casa a causa di mariti possessivi e che hanno a disposizione un giorno all’anno per divertirsi, la loro festa appunto dell’otto marzo. Le immaginiamo bionde ossigenate, con qualche dente mancante, il rossetto sbavato e i vestiti con fantasia pantera, acquistati su shein o dai cinesi.
Categoria B: donne laureate, istruite e con figli che si riuniscono per passare una serata in cui l’energia femminile esplode tra le voci che si sovrappongono ai colori del vino: bianco, rosso e rosé. Si condividono esperienze, come quelle in sala parto, si discute di sesso/promiscuità che si risveglia a cinquant’anni, di mariti, di figli e di altre donne. Sono come una linea di confine, una zona neutra ma compatta, stanno tra chi balla sui tavoli e chi l’otto marzo urla nelle piazze. Loro l’otto marzo non parlano di come migliorare il mondo delle donne, ma nella vita di ogni giorno qualcuna prova a farlo, nel limite delle sue possibilità.
Categoria C: quelle che “non c’è niente da festeggiare” visto che è una ricorrenza triste. Per chi non lo sapesse circola ormai da tempo la bufala secondo la quale l’otto marzo sia una ricorrenza in cui si ricorda la morte di molte donne. Questo è tutto quello che hanno da dire su questa giornata, ogni anno, dicendosi contrari ad alcun tipo di festeggiamento o altro e chiosando così il dibattito.
Categoria D: le tanto criticate nuove generazioni, di cui fa parte ad esempio la sorella di Giulia Cecchettin, Elena. Questi ragazzi di oggi che hanno tutto e si lamentano di tutto, fingono malesseri e all’occorrenza spiattellano il dolere per essere popolari. Tra di loro campeggiano le attiviste di “Non una di meno” e le femministe in generale. Ma anche donne più adulte che manifestano urlando con vigore, ed anche in questo caso, “inutilmente”. In questa visione dimora come un demone quel viscido e radicato pensiero patriarcale. Ho visto uomini essere presenti a certe manifestazioni e provare disapprovazione continua per chi la gestisce, per le parole che scelgono di usare, per il tono di voce, per tutto.
Io questo 8 marzo ho deciso di autoincoronarmi donna più pesante d’Italia (potrei battere anche Laura Boldrini), perché ho compreso che ciò che viene percepito come pesante da certi uomini e certe donne è invece desiderio di equità per altre e altri. Se mi scontro, e mi scontro, con datori di lavoro che dicono ad una donna quando deve restare incinta (cioè non deve) poiché mette a rischio il suo avanzamento di carriera, se non addirittura il suo posto di lavoro; se leggo sui giornali di uomini che dicono di amarti ma poi ti uccidono; se conosco la storia del professore X che ha accettato di farti da relatore per la tesi di laurea a condizione che tu faccia ciò che sessualmente ti chiede, se nella vita privata, in politica, alcuni uomini non sopportano la voce delle donne, se le parole delle donne vengono distorte, manipolate e ridotte al silenzio… se veniamo tacciate di mentire per queste e altre violenze. Allora io voglio essere ancora più pesante, perché di “lasciar stare” non ne voglio più sapere per il resto della mia vita.
L’otto marzo non è un giorno, è un tempesta di cose che sono successe, è la memoria, è il presente, è la politica, è una visione e come tale dovrebbe riguardarci tutti e tutte, eppure alla fine sembra che importi solo a chi non riesce a stare un po’ zitta.
Effetti collaterali del categorizzare gli individui
Fino a questo momento ho giocato al gioco dello specchio, raccontando di una parziale (ingiusta) classificazione che altri occhi vedono. Adesso mettiamo da parte lo specchio, mettiamo da parte la nostra tendenza a dividere e segmentare, a schematizzare, accorpare, definire gli essere umani e parliamo seriamente di cosa comporta farlo.
Gli effetti collaterali di tale tendenza sono molti e come per le medicine, non buoni: alimentazione di stereotipi, diffusione di narrazioni distorte, propagazione nella società della convinzione che esista un confine netto tra chi appartiene a un determinato gruppo sociale e chi no.
Succede che tralasciamo il fatto più notevole dell’essere umano: la sua complessità. Ogni individuo è molteplice, mai uguale a chi era un mese fa, un anno fa, un secondo fa; l’individuo è mutevole, ed è libero quando esprime tale mutevolezza. Quando lo chiudiamo dentro una categoria rigida, lo facciamo per pura e semplice comodità di risparmio energetico del pensiero. Lo facciamo per necessità di vedere nell’altro la somiglianza al suo gruppo, quella che ci rassicura e di contro di allontanare la diversità, quella che “non capiamo” e che tendiamo a ridicolizzare.
Facciamo un esempio, io Stefania Castellano posso andare a cena con il gruppo B, essere vicina nelle idee al gruppo D, essere un po’ di ognuna di loro, posso essere l’otto marzo che più si muove in risonanza con la mia volontà in quel determinato momento… posso essere quella persona che di volta in volta decide come esprimersi perché abita sulla soglia delle categorie. Questo ultimo concetto l’ho ripreso dal libro Dare la vita, di Michela Murgia e adattato al mio discorso.
Un testo che forse non ho capito ancora, ma che di certo ha spostato più in là il limite del mio pensiero, al quale tutte e tutti noi dovremmo affezionarci e legarci meno, poiché altre riflessioni potrebbero insinuarsi. Più ampio sarà il nostro pensiero, meno sentiremo il bisogno di catalogare le donne e in più in generale gli individui tutti.