Negazionismo e ingiustizia discorsiva: fare o non fare cose con le parole

"I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo" 
 Ludwig Wittgenstein

Avete mai provato il brivido di scambiare due chiacchiere con un negazionista? E oltre all’irritazione, che immagino abbiate provato, vi siete chiesti quali sono le conseguenze sociali e storiche di tale atteggiamento? Spero tanto di sì, ma se così non fosse questo articolo l’ho scritto – anche – per voi.

  • Prima di ogni cosa chiariamo cos’è il negazionismo: s. m. [der. di negazione]. – Termine con cui viene indicata polemicamente una forma estrema di revisionismo storico (v. revisionismo), la quale, mossa da intenti di carattere ideologico o politico, non si limita a reinterpretare determinati fenomeni della storia moderna ma, spec. con riferimento ad alcuni avvenimenti connessi al fascismo e al nazismo (per es., l’istituzione dei campi di sterminio nella Germania nazista), si spinge fino a negarne l’esistenza o la storicità. Treccani

Come tutte le cose del mondo il negazionismo si è esteso a molti altri aspetti e fenomeni sociali, eccoti una breve lista: il cambiamento climatico, la povertà (essere poveri infatti è una scelta, così come salire su un barcone), le disparità sociali, i virus, il patriarcato, il femminicidio, l’omotrasnofobia, il potere delle parole e via discorrendo così forse fino a consumare la tua pazienza o ad accendere la tua curiosità. Sei fai parte del primo filone sei nel posto giusto.

Facciamo un esempio concreto della negazione più in trend del periodo, quella dell’emergenza climatica. I giorni da poco trascorsi sono stati terribili per gran parte dell’Italia: maltempo al nord, incendi al sud. I giornali italiani da quando hanno sempre più l’urgenza di battere la concorrenza (i titoli acchiappa click ne sono la prova) utilizzano sovente un linguaggio da guerra/terrore, ma è anche vero che a fare da contraltare a questa tendenza vi è la nostra attuale maggioranza politica che con una musica leggera, anzi leggerissima, si esprime così:

A Milano tempesta nella notte ma i giornali del centrodestra parlano di “dogmi del clima”. Salvini minimizza: “Basta fare terrorismo”. Per il compagno di Meloni, Andrea Giambruno, “non è una notizia”. E la premier parla di “realtà climatica imprevedibile”

La Repubblica 

Ma perché taluni sentono il bisogno di negare un fenomeno, una scoperta scientifica, il dramma che altri vivono o hanno vissuto? Ci sono molte risposte a questa domanda, in ordine sparso abbiamo: ignoranza, superficialità, egoismo, bias cognitivi (stereotipi e pregiudizi) e forse la più terrificante di tutte: incapacità. Difatti come sostiene la mia amica Anna è più facile negare, perché non farlo richiede una strategia per affrontare la questione, richiede capacità che evidentemente non si hanno.

In sintesi:

  1. le persone pesanti non piacciono a nessuno (ad es. gli ecologisti, le lobby gay o femministe);
  2. i problemi – la realtà – non piacciono in generale e ancora meno quando non li sappiamo affrontare; (vedi maggioranza di governo su svariate questioni, es. famiglie arcobaleno.)
  3. un bravo negazionista sventola come un vessillo di giustizia un accorato insieme di cose da negare. Con una si annoia.

Vorrei ricordare un pochino a tutti che ognuno di noi per qualcuno è il “diverso”, il “meridionale”, colui la cui esistenza va negata o indebolita, quindi attenzione perché il piedistallo sociale è solo un punto di vista soggettivo, si sale e si scende.

Il potere delle parole – Ogni dire e anche un fare

Mi sento certa nel dire che negare il potere del linguaggio è tra le cose più pericolose che una società può fare ad alcuni individui e a se stessa. Quante volte hai sentito dire la frase “le parole sono solo parole”? Quando sappiamo benissimo che le parole possono essere pietre, il fatto è che ce ne rendiamo conto non quando quella pietra la lanciamo ma quando colpisce anche noi.

Secondo quanto letto nel libro Hate speech: il lato oscuro del linguaggio della linguista Claudia Bianchi, per i negazionisti del non fa nulla se dico: “puttana”, “negro”, “terrone”, “frocio”, non ci sono buone nuove. Quelle paroline sopra sono in realtà degli epiteti denigratori, che a differenza degli insulti generici (come “stronzo” o “cretino) possiedono la caratteristica di colpire non soltanto un individuo ma il gruppo sociale di riferimento.

Secondo John Austin e la sua Teoria degli atti linguistici, il linguaggio ha due dimensioni: una descrittiva e una performativa ed è proprio da queste caratteristiche che nasce la sua famosa affermazione “ogni dire è anche un fare”. Dunque le parole non descrivono solo la realtà, ma hanno degli effetti extra linguistici sui parlanti.

Chi parla, proferendo un enunciato, è in altre parole in grado di porre in essere fatti nuovi, imporre doveri o contrarre doveri, legittimare credenze e autorizzare comportamenti, stabilire convenzioni e, in definitiva, modificare la realtà sociale.

Claudia Bianchi dal libro Hate Speech – il lato oscuro del linguaggio

Le parole d’odio generano e legittimano asimmetrie e disuguaglianze sociali. Attraverso il loro uso plasmiamo la realtà sociale e le nostre identità, diffondiamo e autorizziamo pregiudizi e discriminazioni, fomentiamo violenza. Allo stesso tempo il linguaggio (quello dei yedi), quello attento e inclusivo può essere il più importante strumento di emancipazione sociale.

Paradossalmente spesso il destinatario primo di un attacco verbale non è la vittima dell’attacco – l’individuo denigrato o la categoria sociale a cui appartiene – ma il nostro gruppo di appartenenza: il linguaggio d’odio dice qualcosa di noi più che delle nostre vittime. Frasi ed espressioni razziste, omofobiche o sessiste sono cioè un modo per attestare la nostra identità sociale, culturale e politica, per affermare la nostra appartenenza alla fazione dominante, per rinforzare la gerarchia sociale – per trasformare un individuo insignificante in una massa minacciosa. Omofobia, razzismo e misoginia sono modi di odiare in branco; sono secondo un’efficace espressione, forme di odio “alla prima persona plurale”.
Claudia Bianchi dal libro Hate Speech – il lato oscuro del linguaggio

Cos’è e chi sono le vittime dell’ingiustizia discorsiva?

Per comprendere il fenomeno dell’ingiustizia discorsiva dovete smettere di pensare al lingua come qualcosa di naturale che è nata con voi e che esiste in autonomia. La lingua la fanno i parlanti e mentre la facciamo descriviamo le cose, ma facciamo anche cose con le parole: promettiamo, ci sposiamo, malediciamo, amiamo, giuriamo, testimoniamo, ci diciamo addio, condanniamo a morte (dimensione performativa).

Il punto è proprio questo: non a tutti è permesso di fare cose con le parole o di farle allo stesso modo.

Vedete quando appartieni ad un gruppo sociale oppresso (donne, omosessuali, minoranza etnica o religiosa, disabili, per citarne alcune) capita che le tue parole possano essere distorte fino ad annullare la possibilità che tu possa agire in modo efficace nella realtà sociale.

Secondo la professoressa Bianchi:

In particolari circostanze chi appartiene ad un gruppo discriminato si ritrova ad aver fatto, con le sue parole, cose diverse rispetto a quelle che intendeva fare – più deboli rispetto a quelle che un membro di un gruppo sociale privilegiato riuscirebbe a compiere usando le stesse parole nella stessa situazione.

La distorsione illocutoria si spinge fino al limite, ossia alla riduzione al silenzio, infatti in alcune situazioni le parole di chi appartiene ad un gruppo discriminato non vengono solo distorte o indebolite, ma annullate. Di queste esperienze terribili le donne ne sanno qualcosa, come quando il rifiuto di avance sessuali viene distorto appunto e percepito come “parte di una sceneggiata” di corteggiamento. Che per essere chiare, non è assolutamente così. Sempre le donne hanno esperienza di riduzione al silenzio, pensate alla vicenda che vede coinvolto Leonardo Apache La Russa, figlio del presidente del Senato Ignazio.

L’attenzione al linguaggio non è un capriccio da intellettuali o seguici del politicamente corretto, che per molti sembra una perdita tempo al cospetto di cose più gravi (attenzione al benaltrismo) quelle che si possono toccare, quelle che con l’inganno vengono inserite nello spot “prima gli italiani”. A me dispiace dirlo così alla nostra classe politica, ma chi parla ha un potere specialmente se ricopre un ruolo importante e da un potere deriva una grande responsabilità:

Ciò che diciamo cambia i limiti di ciò che può essere detto, sposta un po’ più in là i confini di ciò che viene considerato normale, scontato leggittimo. |…| E cambiare i limiti di ciò che può essere detto cambia i limiti di ciò che può essere fatto: ci abituiamo alla mancanza di attenzione sulle parole, che rende più accettabile la mancanza di vigilanza sulle azioni.

Smettiamo di farlo. Smettiamo di negare che con le parole “si facciano cose”, che dare il giusto nome ad un fatto sia solo una faccenda secondaria, quasi inutile. Abbiamo il dovere di usare le parole in modo responsabile, abbiamo il dovere di non stare in silenzio di fronte a chi usa il linguaggio d’odio per fare “propaganda” politica o per togliere la voce a qualcuno.

Fonte: Hate speech - Il lato oscuro del linguaggio, di Claudia Bianchi 

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